.. dall'Autore de "I PROMESSI SPOSI"...
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Brani tratti da “Storia della Colonna
Infame”
di Alessandro Manzoni a cura di acr e crv
No; non c’era la tortura per
il caso di Guglielmo Piazza: furono i giudici che la vollero, che, per dir
così, l'inventarono in quel caso. Se gli avesse ingannati, sarebbe stata loro
colpa, perché era opera loro; ma abbiam visto che non gl'ingannò. Mettiam pure
che siano stati ingannati dalle parole del Piazza nell'ultimo esame, che abbian
potuto credere un fatto, esposto, spiegato, circostanziato in quella maniera.
Da che eran mosse quelle parole? come l'avevano avute? Con un mezzo,
sull'illegittimità del quale non dovevano ingannarsi, e non s'ingannarono
infatti, poiché cercarono di nasconderlo e di travisarlo. Se, per
impossibile, tutto quello che venne dopo fosse stato un concorso accidentale di
cose le più atte a confermar l'inganno, la colpa rimarrebbe ancora a coloro che
gli avevano aperta la strada. Ma vedremo in vece che tutto fu condotto da
quella medesima loro volontà, la quale, per mantener l'inganno fino alla fine,
dovette ancora eluder le leggi, come resistere all'evidenza, farsi gioco della
probità, come indurirsi alla compassione.
[…]Certo, non è cosa ragionevole l'opporre la compassione alla giustizia, la quale deve punire anche quando è costretta a compiangere, e non sarebbe giustizia se volesse condonar le pene de' colpevoli al dolore degl'innocenti. Ma contro la violenza e la frode, la compassione è una ragione anch'essa. E se non fossero state che quelle prime angosce d'una moglie e d'una madre, quella rivelazione d'un così nuovo spavento, e d'un così nuovo cordoglio a bambine che vedevano metter le mani addosso al loro padre, al fratello, legarli, trattarli come scellerati; sarebbe un carico terribile contro coloro, i quali non avevano dalla giustizia il dovere, e nemmeno dalla legge il permesso di venire a ciò.
[…]
Il Mora fu messo alla tortura!
L'infelice non aveva la robustezza del suo calunniatore. Per qualche tempo però, il dolore non gli tirò fuori altro che grida compassionevoli, e proteste d'aver detta la verità. "Oh Dio mio; non ho cognitione di colui, né ho mai hauuto pratica con lui, et per questo non posso dire... et per questo dice la bugia che sia praticato in casa mia, né che sia mai stato nella mia bottega. Son morto! misericordia, mio Signore! misericordia! Ho stracciato la scrittura, credendo fosse la ricetta del mio elettuario... perché voleuo il guadagno io solamente". "Questa non è causa sufficiente", gli dissero. Supplicò d'esser lasciato giù, che direbbe la verità! Fu lasciato giù, e disse: "La verità è che il Commissario non ha pratica alcuna meco". Fu ricominciato e accresciuto il tormento: alle spietate istanze degli esaminatori, l'infelice rispondeva: "V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò": la risposta di Filota a chi lo faceva tormentare, per ordine d'Alessandro il grande, "il quale stava ascoltando pur anch'esso dietro ad un arazzo66": "dic quid me velis dicere67" è la risposta di chi sa quant'altri infelici.
Finalmente, potendo più lo spasimo che il ribrezzo di calunniar sé stesso, che il pensiero del supplizio, disse: "ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al Commissario. V.S. mi lasci giù, che dirò la verità".
Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del birro, come al Piazza l'immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso con una tortura illegale, come nel primo con un'illegale impunità. L'armi eran prese dall'arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e a tradimento.
Vedendo che il dolore produceva l'effetto che avevan tanto sospirato, non esaudiron la supplica dell'infelice, di farlo almeno cessar subito. Gl'intimarono "che cominci a dire".
Disse: "era sterco humano, smojazzo" (ranno; ed ecco l'effetto di quella visita della caldaia, cominciata con tanto apparato, e troncata con tanta perfidia); "perché me lo domandò lui, cioè il Commissario, per imbrattare le case, et di quella materia che esce dalla bocca dei morti, che son sui carri". E nemmen questo era un suo ritrovato. In un esame posteriore, interrogato "dove ha imparato tal sua compositione, rispose: diceuano così in barbarìa, che si adoperaua di quella materia che esce dalla bocca de' morti... et io m'ingegnai ad aggiongervi la lisciuia et il sterco". Avrebbe potuto rispondere: da' miei assassini, ho imparato; da voi altri e dal pubblico.
[…]
La confessione fatta nella tortura non valeva, se non era ratificata senza tortura, e in un altro luogo, di dove non si potesse vedere l'orribile strumento, e non nello stesso giorno. Eran ritrovati della scienza, per rendere, se fosse stato possibile, spontanea una confessione forzata, e soddisfare insieme al buon senso, il quale diceva troppo chiaro che la parola estorta dal dolore non può meritar fede, e alla legge romana che consacrava la tortura.
[…]
Chiamarono il Mora a un nuovo esame, il giorno seguente. Ma siccome in tutto dovevan metter qualcosa d'insidioso, d'avvantaggioso, di suggestivo, così, in vece di domandargli se intendeva di ratificar la sua confessione, gli domandarono "se ha cosa alcuna d'aggiongere all'esame et confessione sua, che fece hieri, doppo che fu ommesso di tormentare". Escludevano il dubbio: la giurisprudenza voleva che la confessione della tortura fosse rimessa in questione; essi la davan per ferma, e chiedevan soltanto che fosse accresciuta. Ma in quell'ore (direm noi di riposo?) il sentimento dell'innocenza, l'orror del supplizio, il pensiero della moglie, de' figli, avevan forse data al povero Mora la speranza d'esser più forte contro nuovi tormenti; e rispose: "Signor no, che non ho cosa d'aggiongerui, et ho più presto cosa da sminuire". Dovettero pure domandargli, "che cosa ha da sminuire". Rispose più apertamente, e come prendendo coraggio: "quell'unguento che ho detto, non ne ho fatto minga (mica), et quello che ho detto, l'ho detto per i tormenti". Gli minacciaron subito la rinnovazion della tortura […]. A quella minaccia, rispose ancora: "replico che quello che dissi hieri non è vero niente, et lo dissi per li tormenti". Poi riprese: "V.S. mi lasci un puoco dire un'Aue Maria, et poi farò quello che il Signore me inspirarà"; e si mise in ginocchio davanti a un'immagine del Crocifisso, cioè di Quello che doveva un giorno giudicare i suoi giudici. Alzatosi dopo qualche momento, e stimolato a confermar la sua confessione, disse: "in conscienza mia, non è vero niente". Condotto subito nella stanza della tortura, e legato, con quella crudele aggiunta del canapo, l'infelicissimo disse: "V.S. non mi stij a dar più tormenti, che la verità che ho deposto, la voglio mantenere". Slegato e ricondotto nella stanza dell'esame, disse di nuovo: "non è vero niente". Di nuovo alla tortura, dove di nuovo disse quello che volevano; e avendogli il dolore consumato fino all'ultimo quel poco resto di coraggio, mantenne il suo detto, si dichiarò pronto a ratificar la sua confessione; non voleva nemmeno che gliela leggessero. A questo non acconsentirono: scrupolosi nell'osservare una formalità ormai inconcludente, mentre violavan le prescrizioni più importanti e più positive. Lettogli l'esame, disse: "è la verità tutto".
Giulia
Lazzarini:
è un’attrice italiana. Ha debuttato negli anni Cinquanta in alcuni dei più
famosi sceneggiati televisivi (Casa di bambola, I Miserabili, Tenente
Sheridan).
Successivamente
si lega professionalmente a Giorgio Strehler, tanto da divenire una presenza
costanza nelle produzioni del Piccolo Teatro di Milano.
Ha
lavorato anche con il regista italiano Luca Ronconi.
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